la tentazione di abitare

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Nell’epoca della postmodernità o della surmodernità, per dirla con Marc Augè,  lo spazio è stato privato della propria storia. Il disprezzo o l’indifferenza per il vissuto dei luoghi, hanno promosso gli spazi a luoghi di consumo premeditato, di attese preconfezionate, di desideri effetto random. L’identità pubblica di una chiesa è la tabella indicante nome e secolo, la spiegazione dettata da una guida turistica virtuale per mezzo di auricolari, un quadro di cui si ha avuto già notizia leggendo un libro d’arte o un saggio critico.

Il paesaggio non viene più vissuto, ma attraversato, e ci si imbatte sempre più frequentemente in edifici che possiedono solo una pelle, che configurano questo paesaggio, in contenitori senza destinazione d’uso, vuoti, bianchi e perfettamente inutili.

Quintali di cemento e ferro sono lì in attesa di un completamento,ci si chiede, a distanza di anni perché siano stati costruiti, o perché non vengono smantellati, eppure rimangono lì, immobili a dare forma a luoghi che resteranno modificati per sempre.

Edifici come questi sono emblematici della condizione dell’uomo contemporaneo, lo spazio vuoto è lo spazio in cui ritrovarsi,  annulla ogni imperativo, disorienta la storia, prospetta una via di fuga.

Proust abbandonando la casa materna è angosciato, l’uomo postmoderno vuole curare Proust , e ha messo a punto una visione che annulla le differenze, che soddisfa le aspettative, che vince l’angoscia, l’horror vacui,la globalizzazione imperiale dei valori del mondo postbellico.

È difficile che un progetto sia istituzionale che urbanistico riesca a controllare e a regolamentare il caos delle periferie, uno dei contributi di rilettura di questi tessuti sono affidati puramente all’attraversamento di questi vuoti, e all’interpretazione intellettuale che può scaturirne. Ancora una volta ci troviamo di fronte a liquidi amniotici, difficili da gestire, la cui vera vocazione potrebbe essere proprio quella del Caos di Esiodo.

Text and picture by Marta Orlando.