la tentazione di abitare

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la città, dove diventiamo cittadini e possiamo essere visti, comincia appena fuori la nostra porta, laddove la strada simboleggia la vita pubblica. Se come credevano i greci, gli déi delle nostre erranze hanno creato le prime strade, allora mi spingerei fino a dire che camminare sulle loro tracce è pietas e che, in termini politici, il paesaggio migliore, la strada migliore, sono quelli che suscitano un moto verso uno scopo socialmente desiderabile”

J.B.Jackson.

La transumanza nomade, considerata generalmente come l’archetipo di ogni percorso, è stata lo sviluppo delle interminabili erranze sin dal paleolitico.

L’erranza primitiva ha continuato a vivere nella religione, il percorso assume un carattere rituale, nelle forme letterarie, trasformandosi in seguito in percorso sacro, danza, pellegrinaggio, processione.

Dalla primitiva separazione dell’umanità in nomadi e sedentari deriverebbero due diversi modi di abitare il mondo, e quindi di concepire lo spazio. È convinzione diffusa che i sedentari, in quanto abitanti delle città, sono da considerare come gli “architetti”, mentre i nomadi, in quanto abitanti del deserto dovrebbero essere considerati come “anarchitetti”. Secondo una rilettura ermeneutica della genesi ad opera di Bruce Chatwin ne “Le vie dei canti”, o di Emanuele Turri, in “Gli uomini delle tende” , altri testi letterari fondati sul carattere dello spazio nomade è fin dal dal mito di Caino e Abele che si separa l’anima sedentaria da quella nomade dell’uomo.

L’atto di camminare, quindi pur non essendo partecipativo alla costruzione fisica dello spazio, inaugura in termini simbolici e percettivi la trasformazione dei luoghi, data anche solo la presenza fisica dell’uomo, camminare produce luoghi, è un atto creativo che simultaneamente legge e descrive il territorio.

Text and pictures by Marta Orlando.